sabato 17 ottobre 2015

Recensione de "Osso di maiale e mani di lebbroso" di Mostafa Mastur. Ponte33 edizioni.




 Tra gli appartamenti e le camere descritti in questo racconto, si percepisce chiaramente la difficoltà che i personaggi provano nel sostenere un finto benessere di fronte agli altri, l’insicurezza che li spinge a fare segreto delle proprie emozioni costruendo una fortezza di silenzio intono alla loro persona. Fortezza confermata dalla chiusura dei capitoli, i quali sono dedicati ad una sola circostanza alla volta, che vede un solo protagonista per volta: solo avvicinandosi alla fine del libro, infatti, tutto si fonde in un tempo continuo e confuso a dimostrazione del fatto che, per quanto l’anelito della solitudine sia una costante nella nostra esistenza, nessuno è mai solo e, cosa ancora più importante, nessuno muore solo. 
 La claustrofobica chiusura degli spazi descritti (camere, parcheggi, bar, saloni di bellezza) assimila i personaggi che si trovano a doverli vivere ad uccelli in gabbia, una gabbia ampia che con le sue sbarre rilucenti fornisce al recluso la crudele illusione della libertà, disperando le menti e risucchiandole all'interno di un vortice d’ansia confusa, di dolorosa leggerezza che catapulta violentemente le emozioni a confrontarsi con l’amaro universo della realtà, all'interno del quale ogni cosa piange parole dense di significato ma che nessuno capisce poiché, nel momento in cui esse vengono pronunciate diventano tutt’a un tratto incomprensibili, esattamente come le emozioni dalle quali provengono ( “[…] ma per le parole questo è soltanto un tipo di gioco fatto con esse che si realizza in quella sostanza amara e trasparente, cioè il pianto. […]” ). Questo vortice inquieta poiché inganna chi si trova al suo interno girando velocemente ma silenziosamente e rendendo dunque impossibile l’associazione convenzionale di un suono ad una situazione, sbalestrando chiunque venga colto ed escludendo dal campo delle possibilità la sicurezza che solo la paura è capace di offrirci: la morte. Raramente infatti sono descritti suoni imponenti o alti, i quali di regola dovrebbero provocare una serie di reazioni istintive volte all'autodifesa; vengono prediletti i silenzi e i suoni sordi e bassi che li scandiscono, oppure i rumori della quotidianità (il brusio della televisione, il ticchettio dell’orologio, il suono del portone che si apre o si chiude) ai quali ormai siamo abituati e che consideriamo pari si silenzi.

 Particolare è il ruolo della follia, posta come unica rivelatrice della realtà delle cose ma impossibilitata ad intercedere concretamente per fare luce negli angoli più oscuri della vita (è quindi una situazione che ricalca fedelmente i modelli della realtà): è Daniel, un uomo folle - e forse considerato ritardato - l’unico che pare comprendere l’essenziale ruolo della morte all'interno della vita. Infatti Daniel ammette, anzi, accoglie la morte, rimproverando aspramente chi fugge da questo fondamentale fatto: “[…] Perché tutte queste strade, che siano di terra battuta, asfaltate, o autostrade, portano tutte ad un posto terribile che voi, stupidi codardi, in mancanza di un’alternativa e per disperazione, chiamate morte. […] Ma cosa sia o non sia questa morte, nessuno lo sa. L’unica cosa che facciamo, finché è possibile e finché la paura ce lo permette, è andare avanti per poi fermarci sull'orlo di un precipizio. Un precipizio molto profondo e buio, sul fondo del quale pensiamo ci sia lo spettro della morte che dorme, anche se poi nessuno di noi può neanche immaginare che cosa c’è laggiù. […]”.
 Questo pazzo personaggio trascorre la vita nella propria stanza, circondato da pericolanti torri di libri che arrivano fino al soffitto e vivendo una relazione di tranquilla, pacata e rassegnata incomunicabilità con la madre, la quale ha una visione semplicistica delle cose e se ne occupa banalizzandole: questa situazione familiare crea un’antitesi che accentua ancora di più le “stravaganze” del figlio, instancabile studioso e pensatore, che si rivela infine un saggio che è arrivato al cuore pulsante della vita e ne sintetizza l’essenza: “[…] La vita […] altro non è che parole in gioco. […] [Queste parole] sono tutte colme di dolore. […]”.


 Si giunge così, con un crescendo di azioni, suoni e riflessioni sempre più complesse e rapide - quasi frenetiche - alla fine del libro, senza tralasciare nemmeno uno degli aspetti caratterizzanti la vita (dunque discutendo della morte) e senza mancare di fornire le verità, spesso da noi inconsciamente occultate, delle cose comuni e delle loro ragioni.



Recensione a cura di Susanna Miano. 





Per info.
www.ponte33.it
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